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Questa volta non parleremo di devozione o di empietà, ma di compassione, del carattere pietoso o impietoso dell’“arte contemporanea”.
Non parleremo perciò né di arte profana, né di arte sacra, ma, forse, della profanazione delle forme e dei corpi nel corso del xx secolo. Infatti, quando oggi si accetta di dibattere sulla pertinenza o sulla nullità dell’arte contemporanea, si omette generalmente di porre la domanda: Un’arte contemporanea, sì, ma contemporanea di che cosa?
In una conversazione inedita con François Rouan, Jacqueline Lichtenstein dichiara:
“Nel momento in cui ho visitato il Museo di auschwitz, davanti a quelle vetrine, ho visto delle immagini di arte contemporanea e l’ho trovato assolutamente terrificante. Davanti a quelle vetrine di valige, di protesi o di giocattoli per bambini, non sono rimasta raggelata. Non sono rimasta prostrata. Non sono rimasta sconvolta come lo ero quando camminavo nel campo, no, nel museo ho avuto improvvisamente l’impressione di essere in un museo di arte contemporanea. Ho ripreso il treno dicendomi: ‘Hanno vinto!’. Hanno vinto perché hanno prodotto delle forme di percezione che vanno totalmente nella continuità del modo di distruzione che è stato il loro”.
I nostri interrogativi partiranno quindi da lì: se il terrore nazista ha perso la guerra, non ha alla fine vinto la pace? Questa pace dell’“equilibrio del terrore”, non soltanto fra l’Est e l’Ovest, ma anche tra le forme, tra le figure di un’estetica della sparizione che potrebbe illustrare la totalità di questa fine secolo.
Se “umanizzarsi è universalizzarsi dall’interno”, l’universalismo dello sterminio dei corpi come dell’ambiente, dopo auschwitz e fino a åernobyl, non è riuscito, invece, a disumanizzarci dall’esterno, sconvolgendo i nostri riferimenti etici ed estetici, la percezione stessa del nostro habitat?
Mentre all’alba della nostra modernità industriale, Baudelaire constatava: “Sono la piaga e il coltello”, come non prevedere che all’indomani dell’ecatombe della Grande Guerra in cui Braque e Otto Dix si erano trovati a fronteggiarsi nel fango della Somme, l’arte moderna si sarebbe spostata dalla piaga al coltello (alla baionetta) con un Oscar Kokoschka, “l’artista con il bisturi”, in attesa, dopo l’espressionismo tedesco di der sturm, dell’azionismo viennese di uno Schwarzkogler, nel corso del decennio del 1960...
Artista Maledetto o arte maledetta? Che dire, nel frattempo, di un Richard Huelsenbeck, uno dei fondatori del dadaismo, che a Berlino, nel 1918, in una conferenza sulle nuove tendenze dell’arte, affermava: “Eravamo per la guerra. Il dadaismo ancor oggi è per la guerra. La vita deve fare male. Non c’è abbastanza crudeltà”. Si conosce il seguito. Vent’anni dopo, il “Teatro della crudeltà” non sarà quello di un Antonin Artaud, ma quello di Kafka, il profeta di sciagure della metamorfosi dei campi, il sisma dell’umanesimo.
“La guerra come igiene del mondo” del manifesto futurista del 1909 era diventata perciò – questa volta trent’anni dopo – la stanza delle docce di auschwitz-birkenau. Quanto al “surrealismo” di Breton che succede al dadaismo, esce anch’esso tutto armato dai fuochi di artificio della Grande Guerra in cui la realtà comune fu improvvisamente trasfigurata dalla magia degli esplosivi e dei gas asfissianti, a Ypres e a Verdun.
Che cosa resta, quindi, dell’interdetto sentenzioso di un Adorno sull’impossibilità di scrivere una poesia dopo auschwitz? Poco in realtà, perché tutto o quasi era iniziato all’alba di un secolo impietoso e costantemente catastrofico, dal titanic nel 1912, fino a åernobyl nel 1986, passando per i crimini contro l’umanità di hiroshima e nagasaki, dove, nell’irradiazione nucleare, era scomparsa una delle tele della serie delle “Notti Stellate” di Van Gogh.
Forse qui si dovrebbe parlare di Paul Celan e del suo suicidio a Parigi nel 1970, lo stesso anno di quello di Rothko a New York... ma perché fermarsi così presto, in questa cronaca necrologica dell’arte in cui il tasso di suicidi è costante dopo quello dell’“uomo dall’orecchio mozzato”, Vincent Van Gogh?
Sembra che la volontà di estinguere l’asfissiante cultura (borghese) sia consistita soprattutto nello sterminare se stessi proprio nel mercato (dell’arte), dando così delle idee, in mancanza di ideali culturali, ai grandi liquidatori del secolo!