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La vittoria elettorale di Obama ha segnato negli States una indubbia discontinuità a fronte della disastrosa esperienza della lunga amministrazione Bush. Una parte della società statunitense ha reagito a una crisi che è economica e morale ma anche di una forma complessiva di vita mentre nelle alte sfere si è percepito il pericolo di un indebolimento irreversibile della potenza americana. Quello di Obama si è posto come il tentativo di una exit strategy dal bushismo in grado di rilanciare il primato globale statunitense con modalità differenti e su basi economiche e sociali nuove. Un’eredità pesante per un compito eminentemente “riformista”, un riformismo da democrazia imperiale. Con la difficoltà decisiva di doverlo fare dentro una traiettoria non più ascendente della potenza a stelle e strisce e senza un blocco sociale newdealista in qualche modo rieditabile.
Obama nella crisi globale presenta un’analisi in “corso d’opera” dei passaggi strettissimi di questo tentativo, dalla corsa alla nomination al primo anno e mezzo di presidenza, sotto l’angolo visuale dell’impatto della crisi globale. Una crisi che sta investendo la riproduzione complessiva della società del capitale e spostando tutti gli equilibri internazionali. Bail out delle banche, stimolo all’economia, riforma sanitaria, regolazione finanziaria, all’interno; rapporto con Pechino, fallimento della governance multilaterale, scontro con l’Europa e ribilanciamento dello sforzo militare e diplomatico, all’esterno. Ecco i nodi cruciali sui quali si sta infrangendo la spinta del change obamiano nell’incapacità/impossibilità di trovare un equilibrio tra insostenibilità della finanziarizzazione e irrinunciabile pretesa alla leadership globale.