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“Togliete all’uomo tutto ciò che è di origine sociale, e non ne rimane che un animale analogo agli altri animali”, assicura Durkheim agli allievi del suo corso di scienza sociale dell’università di Bordeaux, alle soglie del ventesimo secolo. Se, dopo la “morte di Dio” e l’eclisse di ogni trascendenza nella vita degli individui moderni, si sgretola anche la funzione nomica e simbolica della società, l’uomo è destinato ad animalizzarsi, l’unità della persona a disintegrarsi. Con diversi accenti, questa convinzione accompagnerà tutto lo sviluppo del pensiero sociologico di Emile Durkheim.
A differenza di Nietzsche, che, negli stessi anni, si presenta come il “lieto messaggero” di un’umanità postmoderna e dionisiaca, la quale, agli occhi del sociologo francese, non può evitare di essere risucchiata nel vortice dell’insoddisfazione, della frustrazione e dell’angoscia “anomica”, Durkheim affronta il problema di come rigenerare il tessuto connettivo e morale della società industriale, dopo il tramonto delle società basate sulla “solidarietà meccanica”, persuaso, però, che il fatto-valore dell’autonomia individuale sia oggettivamente necessario a questa rigenerazione, in quanto corrispondente, nelle società moderne europee, al processo di universalizzazione e generalizzazione delle norme pratico-morali e all’organizzazione razionale del lavoro e della produzione. Nella misura in cui è in grado di dimostrare che non c’è antinomia tra mantenimento della coesione e affermazione dell’individualità, tra Gemeinschaft e Gesellschaft, e che l’unità della persona si costituisce sempre in connessione dinamica con l’appartenenza a un gruppo sociale, la coscienza sociologica è invocata da Durkheim come ultimo baluardo contro il pericolo di una deriva nichilistica dello spirito europeo (nihilisme e décadence sono le parole ricorrenti nel mondo letterario francese, proprio a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento), che aprirebbe fatalmente le porte ad un individualismo non più “morale”, non più orientato alla costruzione di un nuovo tipo di “solidarietà sociale” (concetto con cui l’approccio funzionalista durkheimiano aggiorna esplicitamente i temi “veteroeuropei” della philía aristotelica e dell’“eticità” hegeliana), ma esasperato, intriso di pathos e autodistruttivo, veicolo di una conversione delle pulsioni di vita in pulsioni di morte, della ragione in solitudine, violenza o follia. Lungo un percorso non privo di oscillazioni e costellato da suggestioni scientiste, quanto ricco di intuizioni e categorie analitiche ancora feconde – che, in questo libro, viene ricostruito cronologicamente sulla scorta di testi ancora inediti in Italia-, l’opera di Durkheim rinvia al tema attuale di come tenere insieme libertà e regole, piacere e giustizia, felicità privata ed etica pubblica, e invita a riflettere su come agire, affinché gli uomini moderni, giustamente gelosi delle loro libertà, non s’illudano, tragicamente per se stessi e per i destini della loro convivenza, di sentirsi in questo modo appagati, mostrandosi impermeabili a quella solidarietà, a quelle “delizie” della vita comune, a cui pure non possono rinunciare, a meno di rendere priva di significato la loro stessa esistenza. E ancora, a chiederci: perché e in cosa la società è qualcosa di più di un’“associazione temporanea”?