Sette mesi sono trascorsi dall’inizio delle mobilitazioni dei gilets jaunes. Sette mesi di aggressioni, verbali e fisiche, inaudite. Ciononostante continuano ogni sabato a presidiare snodi del traffico e a manifestare in decine di città. A ribadire ragioni e richieste della loro protesta. Alcune di queste ultime sono state, in realtà, già accolte e Macron ha dovuto mettere sul piatto una decina di miliardi di euro in misure sociali che cozzano con i suoi iniziali propositi austeritari. Poca cosa per i gilets jaunes che hanno continuato la mobilitazione. La resistenza ha prodotto, pur nel clima generale di demonizzazione, ulteriori problemi al presidente che è arrivato fino al punto di paventare di non poter più prendere a modello per la Francia le riforme tedesche ritenute alla base del rilancio della Germania nel primo decennio del 2000. Che Macron sia veramente disposto a rinunciare alle riforme è, ovviamente, da escludere. Molto più realisticamente egli è costretto a prendere atto che finché i gilets jaunes non smobilitano e il consenso intorno alla loro lotta non si riduce considerevolmente, non può procedere al ritmo riformista preconizzato. E se la Francia non può eseguire, o deve ritardare o rallentare, i suoi compiti riformistici, si aprono contraddizioni anche nell’UE per far rispettare a ogni paese il tabellino di marcia per realizzare, per mezzo dello schiacciamento del lavoro, un ambiente sempre più consono ai profitti e alla rendita. La lotta paga, si sarebbe detto una volta, e non solo per quelli che la conducono ma per tutti quelli che ne sono coinvolti pur restando a guardarla dalla finestra. O dalla tv in paesi lontani. Per pagare, però, a differenza di una volta, deve rifiutare il compromesso, deve evitare di mettersi nelle mani dei rappresentanti sindacali e politici adusi a svenderla e, soprattutto, di smobilitare. Per ottenere gli stessi obiettivi di una volta è, insomma, necessario un surplus di combattività, determinazione, continuità, e, anche, tenersi alla larga dai tradizionali rappresentanti delle classi lavoratrici, nonché da pretesi nuovi rappresentanti come la Le Pen, che mentre li appoggia invoca il ruolo dello stato nel reprimerne le violenze, mistificando sul fatto che quando ci sono è per pura difesa da quelle dello stato.
Un compito immenso grava sulle spalle dei gilets jaunes. Difficilmente potranno sostenerlo a lungo se non emergeranno, vicino e lontano, movimenti con gli stessi obiettivi e le stesse caratteristiche politiche di mobilitazione. Di effetti di generalizzazione della lotta finora non ce ne sono, però, stati. Non che manchino, soprattutto nei paesi mediterranei dell’UE e in quelli dell’est, condizioni sociali ed economiche tali da giustificare conflitti e mobilitazioni analoghi a quelli francesi. Ma sta di fatto che qui il malcontento pur essendo in decisa crescita preferisca indirizzarsi alle opzioni populiste/sovraniste per lo più in chiave di rappresentanza. Si ripone tuttora grande fiducia nel fatto che una rappresentanza politica, affidata con i mezzi elettorali, più determinata a pestare i piedi nell’UE possa spuntare un alleviamento delle politiche anti-sociali da essa sollecitate e una riduzione dell’arrivo degli immigrati, che finiscono con il gravare pericolosamente su un welfare già in via di pesante ridimensionamento. E che sia anche in grado di imporre una politica di crescita, finanziata da nuovo debito nazionale o europeo, che possa dare respiro anche alle classi lavoratrici.
Le esperienze negative già registrate (con Tsipras, M5S e Podemos) non producono un cambio delle modalità da elettorali a conflittuali, ma, al più, come s’è visto nelle recenti elezioni europee, un semplice rifiuto (come in Grecia dove pur di far fuori Tsipras non ci si fa arruolare nel voto utile a frenare la destra europeista) o un cambio di cavallo (in Italia col favore a Salvini apparso come più determinato rispetto al M5S a resistere alle minacce e alle seduzioni dei poteri forti interni ed europei) o un ritorno (come in Spagna) verso una sinistra che si promette più sociale e crescitista con debito rispetto alla versione precedente, mostrando di far suoi gli obiettivi di Podemos.
Se si guarda al peggioramento delle condizioni sociali, economiche, lavorative che ha colpito, in particolare in questi paesi, grandi masse di lavoratori, giovani e donne, la sostanziale assenza di conflittualità sociale può sembrare inspiegabile. Eppure va spiegata. Una causa è senz’altro da individuare nella trasformazione della sinistra da rappresentante delle aspettative delle classi lavoratrici in sofisticato artefice del passaggio dal compromesso sociale tra sviluppo e miglioramento delle condizioni proletarie a un nuovo paradigma in cui la difesa dei profitti fa da perno a ogni altro aspetto, comportando lo smantellamento progressivo di tutti gli strumenti difensivi del lavoro. Mutamento che ha riguardato in pieno la sinistra socialdemocratica, ma che ha trascinato dietro di sé anche tutta quella alternativista, che è sempre vissuta da spondacritica della prima, e che con il mutamento della prima è divenuta, per conseguenza, irrilevante. E non si risolleva dall’irrilevanza neanche quando cerca, pateticamente, di aggiornarsi inseguendo le mode populiste e/o sovraniste. L’elettorato tra fotocopia e originale preferisce sempre l’originale. Non è, tuttavia, una spiegazione sufficiente. L’indagine deve andare oltre ed esaminare se è mutato qualcosa nel profondo del rapporto sociale del capitale, che, per natura, non smette di rivoluzionarsi continuamente anche per sottomettersi in modo sempre più vincolante tutti i fattori della sua riproduzione, a partire da quello determinante del lavoro salariato. E sì, qualcosa è cambiato. Anzi molto. Nel saggio che segue se ne fa un breve cenno, ma l’argomento esige un’indagine ben altrimenti approfondita.
La logica domanda che si impone è: se il proletariato (tutto, non solo la classica classe operaia) è sempre più vincolato alla sua condizione all’interno del rapporto di capitale che fine fa il suo potenziale antagonismo? La risposta, come l’indagine, non è semplice e non può essere semplificata. Come per l’indagine necessita un gran lavoro di scavo e di approfondimento. A partire da cosa è stato l’antagonismo proletario nella concezione dei marxismi che si sono sviluppati nel fuoco delle lotte di classe del secolo trascorso e nella realtà fattuale delle cose. Come è stato concepito, insomma, e cosa è davvero stato nella realtà.
Ci sono nell’indagine dei punti che si possono considerare fermi, acquisiti? Ce ne sono, e più d’uno. Per la necessaria economia del discorso ci si può limitare a ricordarne solo uno. Le modifiche del rapporto di capitale non hanno riguardato la sua essenza di fondo, ossia che è un rapporto di sfruttamento dell’uomo e della natura. Non hanno abrogato la versione capitalistica della legge del valore. Il proletariato è, quindi, molto più vincolato ma, con ciò, anche molto più sfruttato. Un’ulteriore prova di ciò è sotto i nostri occhi. Il mito che la produzione di ricchezza si fosse svincolata dalla produzione materiale per fondarsi esclusivamente sull’auto-generazione tramite il denaro (cui anche il proletariato avrebbe potuto accedere) si sgretola assieme ai rinnovati conflitti commerciali tra stati e al loro contendersi la stessa produzione materiale delle merci e dei mezzi, macchinari e tecnologie informatiche, per produrle. E ai rischi di nuovo conflitto mondiale che portano con sé.
Ma l’indagine per essere completa non può limitarsi agli aspetti, per così dire, di teoria, ma deve indirizzarsi anche in corpore vili. Là dove il rapporto di capitale incide nelle concrete condizioni di vita dei soggetti umani e della natura da cui sugge il profitto essenziale alla sua riproduzione. Se la riproduzione della vita proletaria è stata sempre più sottomessa a quella del capitale, vincolandola con ciò sempre più a esso, cosa succede se i due aspetti dovessero smettere di coincidere, ossia se la riproduzione del capitale dovesse smettere di garantire – o rendere sommamente difficile- quella proletaria?
Al se può rispondere l’indagine teorica, economica, storica. Al cosa la realtà del movimento delle classi. I loro conflitti, latenti o espliciti. Il movimento dei gilets jaunes è un estremo rivolo di un ciclo di lotte di classe ormai in via di chiusura, oppure un primo laboratorio in cui comincia a essere affrontato il conflitto tra classi sfruttate e capitale nella nuova condizione di sottomissione al capitale dell’intera vita umana e della natura?
Nicola Casale, 29 mag 2019
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