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Per la critica del “partito democratico”
è questo un libro di politica e teoria politica.
Il confronto però con quella strategia della “terza via” cui la sinistra europea e transatlantica è ricorsa dopo la fine del comunismo sovietico e della guerra fredda, non nasce da vis polemica, ma da un’urgente istanza critica che impone uno spostamento di attenzione dalla politique politicienne alle tendenze di più ampio momento. Vista in questa prospettiva la terza via appare una risposta a suo modo organica, con una sua dotazione di senso, legata alla necessità di ripensare il socialismo e le politiche di progresso in un mondo privato delle garanzie e degli equilibri che la guerra fredda aveva a suo modo garantito.
questa risposta gli autori del presente lavoro ritengono sia sbagliata, abbia fallito il suo obiettivo e vada superata. Certo non basta una mera liquidazione, la strategia della terza via richiede un’attenta analisi, un’adeguata destrutturazione dei suoi elementi costitutivi, capacità di valutarne le molte implicazioni.
Né basta l’analisi. La critica potrà essere tanto più radicale, quanto più in grado di definire un’ alternativa all’altezza, di ripensare le condizioni e i soggetti della politica oggi, nel mondo ‘fuori controllo’ del dopo-equilibrio del terrore, nel mondo cioè della globalizzazione, del terrorismo fondamentalista, della “guerra infinita”.
L’alternativa alla terza via o sarà un progetto globale o non sarà.
Se infatti non si assumerà nella sua giusta portata il problema della rifondazione della politica, della democrazia e del socialismo, la “terza via” avrà vinto, come che sia dei suoi limiti e delle sue crisi.
Le analisi qui presentate offrono appunto contributi di riflessione e proposta che tengono conto di un intreccio di piani: interno, internazionale, occidentale, globale, economico, politico, culturale.
L’indagine di Mauro Fotia comincia esattamente ricostruendo le condizioni strutturali della terza via: la fine del keynesismo, l’affermarsi già dagli anni ’80 del liberismo, la conseguente crisi della politica e dello stato, in una parola il venire meno di tutte le condizioni del compromesso socialdemocratico che, durante il ‘900, era riuscito ad arginare in Occidente la suggestione del comunismo sovietico.
La terza via in questo senso è stata un tentativo di ripensare la sinistra nel mondo nuovo.
Fotia ne analizza le varie versioni nazionali: dai “New Democrats” di Bill Clinton, alla “ Third Way” di Blair, al “Neue Mitte” di Schröder, alla “Gauche Plurielle” di Jospin, ai limiti dell’Ulivismo italiano, emersi particolarmente durante la prima esperienza di governo del centro-sinistra dal 1996 al 2001.
La critica si concentra su parole d’ordine divenute ricorrenti anche a sinistra come “morte del socialismo”, fine delle “classi” sociali, superamento della differenza destra-sinistra, restrizione del principio di eguaglianza, flessibilità, ecc.
Un’alternativa globale a tutto ciò richiede invece una nuova lettura critica della realtà, affermare che la lotta (democratica, regolata) è una condizione normale della politica e della vita civile, che le differenze di classe non solo sono ancora presenti ma vanno radicalizzandosi su scala planetaria (l’Inghilterra di Blair, scrive David Miliband, è “un paese deturpato dalle divisioni di classe” se anche con i laburisti c’è stato un lieve miglioramento, “oggi in Gran Bretagna i livelli di diseguaglianza economica complessiva e di povertà restano molto alti rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea”1; mentre secondo una recente indagine del “New York Times”, con la globalizzazione negli usa si è avuto “uno straordinario aumento delle ineguaglianze interne”2), ma soprattutto significa che la sinistra non deve annullarsi, come vuole tanta parte del pensiero politico europeo, in una malintesa “new class” super partes, nella ricerca di quel consensus omnium bonorum che è la cifra dell’elitismo italiano da Cicerone, alla ossessione novecentesca per un “grande Partito d’Azione”, sede di tutte le virtù e di tutte le capacità.
Con questa ideologia e questi equivoci occorre rompere.
Per questo un nuovo socialismo, insieme al valore della lotta, deve riscoprire quello dell’identità, di una autonoma organizzazione e visione del mondo da parte della sinistra, contrapposta, sempre sul piano democratico, ad una destra che deve rinunciare a nostalgie e a pulsioni reazionarie.
Il socialismo smentirà di essere morto solo mostrandosi all’altezza dei problemi, capace di ripensare la possibilità della politica, di esprimere un’idea precisa, conflittuale e alternativista, della democrazia, rigettando dunque ogni tentazione o lusinga neocentrista; ma poi anche riqualificando le relazioni internazionali su base pacifica e paritaria, riponendo con forza il problema della giustizia sociale, della democrazia economica, della ricerca di “soluzioni extramercato” (Fotia).
Le pagine di Fabio Vander ragionano più direttamente sul caso italiano; ma la vicenda nazionale, ricostruita nella sua parabola moderna, dal Piemonte di Cavour ad oggi, è situata nel quadro internazionale, in un confronto stringente con la storia di altre grandi democrazie.
L’intento è mostrare come la vituperata “anomalia italiana”, l’essere la nostra democrazia per definizione “incompiuta”, “imperfetta”, “debole”, costituisca a ben vedere un dato comune a tante democrazie pure prese come modello di compiutezza e maturità. Il “trasformismo” italiano insomma conosce anche altre varianti nazionali, tutte ovviamente con una loro peculiarità, eppure partecipi di un vizio, di potenzialità non sviluppate, di “promesse non mantenute” che portano l’autore appunto a parlare di democrazie imperfette.
Che poi Arend Lijphart possa lamentare oggi il ritorno delle democrazie consociazionali ovvero la crisi delle democrazie dell’alternanza, non fa che dimostrare come il paradigma italiano rischia di generalizzarsi, nel senso che ovunque si espandono quei caratteri di moderazione, di convergenza al centro, di annullamento della distinzione destra-sinistra, che pure si annidavano anche nelle storiche democrazie maggioritarie.
La terza via in questo senso – e qui torna il discorso sulla sua epocalità – è un segno dei tempi, una strategia che sorge in una fase di crisi e di passaggio non solo per la democrazia, ma per la politica come tale.
Questo spiega una volta di più l’esigenza di una risposta globale, teorica e pratica, capace di cambiare l’agenda e il vocabolario della politica.
La prospettiva di comparatistica dei sistemi politici scelta da Vander ha quindi un senso specifico. La tesi è che se la versione italiana della terza via e cioè la strategia dell’Ulivo e oggi del “Partito Democratico”, ha la sua origine remota nella vicenda secolare del trasformismo italiano, dal “connubio” di Cavour, a Depretis e Giolitti, fino al consociativismo della prima Repubblica, anche in paesi come la Francia e la Germania ci fu chi già nell’‘800 teorizzò e mise in pratica il juste milieu, la convergenza al centro dei moderati di destra e sinistra. Bastino i nomi di Guizot e Cousin, di Rosenkranz e von Mohl, ma anche ricordare che il cancelliere Schröder ancora nel 2002 parlò della strategia di neue Mitte in termini proprio di juste milieu. Per di più Vander ricorda come anche nella mitica terra dell’alternanza, l’Inghilterra, almeno dall’‘800 ci furono convergenze sociali e politiche, blocchi di potere centristi che si rafforzarono addirittura dopo il 1945, portando governi di segno opposto non solo a condividere i fondamentali della democrazia (il che sarebbe plausibile), ma anche aspetti peculiari dei programmi di governo (una concezione dello stato, dei rapporti con i sindacati, del ruolo del mercato, ecc.), che invece dovrebbero rimanere contrapposti.
Questa tendenza dalla seconda metà degli anni ‘90 si è solo radicalizzata, è divenuta più esplicita, c’è stato quel salto di qualità che Lijphart ha chiamato “ritorno delle democrazie consociazionali” e di cui la terza via è stata appunto il riflesso più direttamente politico.
Molti sono i fattori che hanno determinato questo corso delle cose. Le due parti del libro ne elencano i principali. In primis la reverse moderata succeduta al 1989, il perdere di autonomia della proposta di sinistra, il ruolo di un’istituzione come l’Unione europea con le sue decisioni prese per “consensus”, cioè nella confusione di orientamenti opposti. Inoltre, che alle elezioni europee si voti con il criterio proporzionale, che la Commissione europea sia fondata su una grande unità socialisti-conservatori a prescindere da quale schieramento risulti maggioritario, ecc., sono tutte cose che deprimono l’alternativa, che spingono alla moderazione e alla convergenza centrista.
I motivi di fondo che giustificano la critica del progetto di “Partito Democratico” sono questi.
Che fare? Il libro si conclude con una riflessione sul concetto gramsciano di “egemonia”. Anche qui però tutto viene strettamente contestualizzato nel quadro internazionale. La rinnovata fortuna del “Gramsci’s work on hegemony” è ricostruita infatti nel dibattito anglo-sassone, dove a partire dalla fine degli anni ‘80 il lungo governo della Thatcher e poi la strategia blairiana della third way, sono stati visti propriamente come progetti di ampio respiro, che integrano i piani economico, politico e culturale.
Di questo c’è dunque bisogno, di un’altra egemonia, di un progetto complessivo che, rilanciando identità e ruolo del socialismo, rilanci perciò stesso il senso migliore della politica e dunque della democrazia.
Gli autori