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Dell'epocale processo di trasformazione delle condizioni di lavoro, di esistenza e di organizzazione dei lavoratori [avvenuto negli ultimi quaranta anni] Ricardo Antunes è un narratore lucido e appassionato (le due cose possono coincidere). Dovrei dire, forse, analista, ma il termine suona, alle mie orecchie almeno, troppo freddo per essere applicato al lavoro di ricerca di questo eminente studioso brasiliano. Narratore, che è qualcosa di più e di meglio di analista, Antunes lo è; però, non al modo affabulatorio di un Foucault, in cui non risulta mai sufficientemente chiaro dove e come stiano realmente le "cose" di cui si sta parlando, bensì piuttosto alla maniera di un romanziere realista quale Balzac, che riconnette e ricompone i frammenti, i particolari analizzati con cura, fino a far riconoscere il contesto unitario di cui sono parte. E, sempre a differenza di un Foucault, non un narratore prigioniero dell'onnipotenza del suo avversario-oggetto, ma un narratore che nel descrivere a fondo la capacità del capitale globale di trasformare materialmente e manipolare interiormente il lavoro e i lavoratori, non perde mai di vista gli antagonismi sociali, le possibilità di liberazione e di emancipazione del lavoro salariato inscritte nei rapporti sociali capitalistici del nostro tempo; ed anzi parteggia apertamente perché queste possibilità diventino realtà, senza che ciò tolga qualcosa al rigore della sua indagine. La sua ricostruzione della nuova morfologia del lavoro è davvero onnilaterale perché tiene presenti Nord e Sud del mondo, "vecchie" e nuove tecnologie, lavoro manuale e lavoro intellettuale, lavoro materiale e lavoro immateriale, lavoro contrattualizzato e lavoro informale (in tutte le sue forme molteplici), qualificazione e dequalificazione del lavoro, lavoro nell'agricoltura, nell'industria e nel terziario, lavoro visibile e lavoro "invisibile", lavoro produttivo e lavoro "improduttivo", lavoro salariato e lavoro falsamente autonomo (le cooperative, una certa "auto-imprenditorialità", etc.). E identifica la connessione sistemica tra tali svariate ed eterogenee concrezioni che il lavoro vivo presenta alla scala mondiale nel fatto che esso è oggi più che mai lavoro sociale, lavoro sociale universale, "più complesso, socialmente combinato e intensificato nei suoi ritmi e nei suoi processi" di quanto fosse prima dell'era digitale. E sulla base di questa ricostruzione, critica verso le visioni euro-centriche del lavoro e del capitalismo contemporaneo ma senza suggestioni e semplificazioni terzomondiste, estremamente attenta alle nuove forme di interazione tra lavoro vivo e macchine e al cosiddetto lavoro immateriale, oppone alle tesi della "fine del lavoro", della scienza come principale forza produttiva in sostituzione del lavoro vivo, del superamento della legge del valore, la tesi contraria di una vigenza allargata, e sempre più complessa, della legge del valore, che ingloba e sussume anche il lavoro "cognitivo" fatto a contatto con le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, senza mollare neppure per un istante la presa sul "vecchio" lavoro a contatto con le macchine dell'era taylorista-fordista.
dalla Presentazione di Pietro Basso