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«Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re». Recita uno dei più controversi frammenti del filosofo greco Eraclito che ammonisce come la guerra «gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi» (Fr. 32). Dalla guerra di Troia alla Primo conflitto mondiale, un’ombra oscura ha accompagnato la ambigua relazione tra pólis e pólemos che ha segnato la storia europea. Proprio lo studio di questa, infatti, sembra risolversi in una lunga teoria di tragici eventi bellici, ed i pochi capitoli riservati alla pace appaiono per lo più periodi di transizione, mere tregue come sottolineava Thomas Hobbes, brevi preludi all’inevitabile scatenarsi degli eventi.
L’ identità sociale e politica occidentale a partire da quell’Iliade, che di quella può essere letta come il primo racconto di formazione, sembra allora fondarsi su una contiguità tanto contraddittoria quanto ineludibile con la guerra. Le stesse nozioni di isonomia e isegoria che vengono poste a fondamento della pólis, ricorda Hannah Arendt, trovano la loro fonte giuridica nel rapporto tra eguali che caratterizzava le assemblee degli eroi omerici.
Nel centenario della conclusione di quella che i contemporanei chiamarono la Grande Guerra, la forza di questo legame non dovrebbe essere dimenticato. L’Europa – con l’esclusione dei paesi balcanici – da oltre settant’anni sta sperimentando un’epoca di pace interna, imprevista e imprevedibile al termine della Seconda Guerra Mondiale. Il più lungo periodo di pace, che ha accompagnato le nazioni europee nel loro cammino di progresso, sembra imporre la paradossale necessità di non abbandonare la riflessione sull’eventuale contributo che il conflitto possa aver offerto alla formazione della identità dello stesso cittadino occidentale. Non solo per non dimenticare gli orrori bellici, ma per rafforzare un processo di costruzione identitario che di quelli possa fare finalmente a meno.