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Nulla dice di più sullo stato del mondo attuale del fatto che gli Stati Uniti sempre più si presentano come una equazione impossibile. Il primo paese mercantile-capitalistico puro nella storia – privo di un passato premoderno – si divincola tra la crisi del suo comando globale e l’impossibilità di ripristinarlo nella cornice consueta dell’ordine internazionale liberale, tra spinte anti-globalizzazione e destino che ne fa la nazione “indispensabile”, per sé e per le altre, del sistema mondiale, tra crescente polarizzazione interna e aleatorietà di qualunque nuovo patto sociale che possa ricostruire un grande consenso, tra scarico dei costi all’esterno e montante riottosità di alleati e avversari a sostenerli al modo di prima.
Le elezioni di novembre sono l’ennesima conferma di questo paradosso, degno di una configurazione quasi imperiale: il disordine nel ventre della bestia oggi non equivale di per sé al benessere del resto del mondo, così come, nel passato, ogni ricomposizione interna, sociale e politica, progressista è sempre stata ricetta per disastri. Dalla guerra civile, compimento dell’emancipazione nazionale borghese, sono venuti fuori i robber barons e il decollo imperialista e nessuna soluzione alla questione dei neri; dal New Deal e dall’alleanza “democratica” nella seconda guerra imperialista è nata la spinta decisiva al dominio mondiale; dal compromesso sociale fordista è scaturito il consenso alla Guerra Fredda e all’aggressione al Vietnam; infine con la ristrutturazione neoliberale post-Sessantotto — che ha conciliato quanto sembrava inconciliabile, desiderio e denaro, autonomia individuale e sottomissione alla Cosa sociale — si è giunti all’odierno dominio totalitario del capitale su ogni forma di vita, che esalta l’individuo solo per abbassarlo nel vortice di un’impotenza ammantata di stravaganza.