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Le voci e le esperienze della poesia del Novecento che trovano spazio in questo studio sembrano corrispondersi e confrontarsi a distanza, non solo su temi ed immagini, che, nell’appartenere loro singolarmente, non possono non essere anche il riflesso di un patrimonio collettivo di storia e di cultura; ma anche tratteggiando i termini di un’unica e composita ‘ragione poetica’, che rende complementari le loro storie, le compone in un unico mosaico di pensiero e poesia. E’ il fine del presente lavoro esplicitare l’affinità di queste esperienze, il fondo ‘cordiale’ del loro sentimento del mondo, i termini di una ragione poetica che le accomuna. E che vuole qui costituire un’analisi, per quanto aperta a suggestioni di senso, di un processo di pensiero che va ‘appropriandosi’ del mondo, che, muovendo dalla percezione della realtà estranea, scopre via via la ragioni etiche e affettive che la rendono familiare, la legano indistricabilmente a una storia e a un destino.
Le pagine di questo studio vogliono pertanto evidenziare, in alcuni grandi poeti del Novecento, da Pascoli a Sbarbaro e Montale, da Ungaretti a Caproni, una capacità di farsi mondo e sguardo, di poter identificarsi nell’estraneo per poter accedere a sé, di guardarsi dal di fuori per vedersi e conoscersi. Il saggio intende infatti evidenziare, nell’opera di alcuni grandi poeti del ‘900, la scoperta dell’alterità nell’io, e, di contro, il tentativo di ricondurre al proprio ethos i margini della realtà esterna. In molti poeti novecenteschi sembra possibile ravvisare, insieme ad una radicale nostalgia dell’Altro, una capacità di farsi mondo e sguardo, di poter identificarsi nell’estraneo per poter accedere a sé, di guardarsi dal di fuori per vedersi e conoscersi. La grande tensione morale della poesia novecentesca nascerebbe allora da questo riverbero dell’io nella realtà, dall’essere la poesia un’esperienza di marginalità e annullamento, che coincide tuttavia intimamente con una condizione di rinascita, di riappropriazione del sé.
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