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«Parlare della fine della filosofia, significa parlare della fine della democrazia, come progetto, e della politica, come attività lucida che ha di mira l’istituzione della società».
D’origine greca, trapiantato in Francia dal 1945 (« venuto a Parigi da Atene, come lo Straniero di Platone è venuto da Elea, in Magna Grecia, ad Atene, per essere qui un maestro di verità, maestro di una verità che non voleva soffocare, ma promuovere la libertà », ha scritto di lui l’amico storico Pierre Vidal-Naquet), Cornelius Castoriadis figura a pieno titolo nel pantheon dei più grandi pensatori francesi della seconda metà del secolo scorso, accanto a Bourdieu, Deleuze, Foucault, Lefort, Lyotard.
Filosofo, sociologo, storico, fu anche economista e psicanalista. «Un titano del pensiero, enorme, fuori dalla norma. Un pensiero enciclopedico, un’esultanza di vivere e di lottare – lotta carnale, spirituale, infinita – ma in movimento e che lascia del grano da macinare e del pane a tavola…» ha scritto, invece, nel suo necrologio, Edgar Morin.
Corredati da un’ampia introduzione alla notevole produzione filosofica e saggistica di Castoriadis, i testi qui presentati, ancora inediti in Italia, sono tratti da conferenze tenute a Boston, Losanna, Roma-Harvard, nell’ultimo decennio della sua vita, e compendiano la testimonianza di un pensiero “controcorrente”, che incita a riaprire l’orizzonte politico delle società contemporanee, sempre più offuscato dallo scetticismo e dalla crisi di auto-rappresentazione e a riportare la filosofia alle domande originarie che l’hanno inaugurata ad Atene, più di venticinque secoli fa, nel solco del processo istituente della democrazia. Queste domande non sono: «che cos’è l’Essere?» o «perché c’è qualcosa piuttosto che niente?», ma: «che cosa dobbiamo pensare?», «che cosa dobbiamo fare?».
Al “terribile e venerando” filosofo di Messkirch - Martin Heidegger, che annuncia la “fine della filosofia” e ingiunge di attendere la salvezza da parte di un Dio -, il filosofo di Costantinopoli, che non accetta l’idea di restare in attesa di una nuova Rivelazione, risponde che solo la filosofia ci ha già salvato e solo la filosofia ci potrà salvare ancora.
Ma è tempo che esca dal rifugio della “Foresta nera”, per ridiscendere nel campo creativo della società e della storia su cui è germinata, nell’agorà senza limiti di tempo della discussione, senza il timore di confrontare la sua “verità” con la doxa ma desiderosa di esporla alla critica, e senza la remora a contaminarsi con la dimensione pubblica e quotidiana della “chiacchiera” (come accade al Dasein heideggeriano) o l’orrore di confondersi tra “le mosche del mercato” (come accade allo Zarathustra di Nietzsche), per riscoprire finalmente la sua missione: contribuire alla “creazione” infinita e rivoluzionaria della società autonoma e democratica. La società che s’istituisce e mette in discussione le sue leggi esplicitamente, senza ricondurre ad una fonte extra-sociale o impersonale (la tradizione religiosa, le leggi di natura o della storia, i meccanismi “spontanei”del mercato, l’Ideologia del Partito) il suo fondamento e l’esigenza della sua conservazione o trasformazione e che, quindi, resta costituita dalla tensione permanente e lucida tra istituzione e creazione.
D’altronde, secondo Castoriadis, solo se si decide ad affrontare di nuovo la “prova della libertà”, l’Occidente cesserà la sua corsa verso l’ “insignificanza” e tornerà ad essere un riferimento positivo per quei popoli e uomini che in altri angoli del mondo tentano di infrangere la “chiusura”, vecchia o nuova, delle rispettive società.