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Di descrizioni della peste ce n'è più d'una nella letteratura: da quella solenne e piena di pathos di Tucidide, a quella severa e possente di Lucrezio, a quella ora stupita ora pensosa del Boccaccio, a quella commossa e tuttavia misurata del Manzoni. Ma questo "Diario dell'anno della peste" di Londra (1665) si impone per la forza della scrittura, realistica e visionaria insieme, e per una drammaticità sobria e vivida che suona straordinariamente moderna. Il capostipite della grande tradizione del romanzo inglese lo compose nel 1722 sulle testimonianze orali e scritte del tempo. Dei capolavori di Defoe, "è uno dei meno noti, e tuttavia contiene forse le pagine più belle che egli abbia scritto". In apparenza distaccata, fino a voler essere un nudo resoconto, la narrazione è invece tutta percorsa da venature di celata tensione. I modelli che la ispirano sono da una parte la Bibbia, la concezione della genesi e del peccato, della catastrofe e della redenzione, i lieviti insomma dell'anima puritana di Defoe, mercante e libellista, fustigatore e fustigato, pellegrino in un mondo governato dalla forza di Dio; dall'altra parte le risonanze della tragedia elisabettiana, con i suoi orrori e i suoi turgori, ormai depurati, resi secchi e solenni, ridotti a prosa piana e compatta: mercantile. Il sellaio londinese, alla cui penna è fatta risalire la stesura del "diario", è in fondo un fratello degli altri personaggi "romanzeschi" di Defoe: Robinson, Moli Flanders, Lady Roxana, il capitano Singleton, il colonnello Jack. Come la loro, la sua è una storia di avventure e disavventure, di pericoli corsi e scampati, di isole deserte o città disertate, entro le quali si viene lentamente ricostruendo, con infaticabile industria, la vita terrena dell'uomo.