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L’antisemitismo europeo è stato talvolta considerato dalla ricerca storica come un atteggiamento irrazionale, senza precisi obiettivi politici. Anche nella storiografia italiana sono stati finora pochi i contributi che indagavano gli aspetti teorico-politici dell’antisemitismo. Questo è invece da considerare un vero e proprio universo ideologico, alla stregua del liberalismo e del marxismo, entrambi eletti a suoi avversari perché prodotti dall’ebraismo. Come qualsiasi altra ideologia, non solo l’antisemitismo ha avuto i suoi ideologi, da Drumont a Rosenberg, Evola ecc., ma ha un proprio mercato politico, i ceti medi e soprattutto quei settori della società borghese liberale timorosi che le crisi finanziarie possano erodere il loro status.
Possiamo definire l’antisemitismo come un progetto di rivoluzione antiborghese, ma non anticapitalistica. In altri termini, esso è da considerarsi un socialismo del capitale, ovvero un socialismo della circolazione contrapposto al socialismo della produzione di impianto marxista.
Inoltre l’antisemitismo è differente dal razzismo: mentre questo può agevolmente convivere in una società pluralista, costituendo una forma di difesa di quest’ultima da soggetti (il nero, l’immigrato ecc.) sospettati di decretare la crisi delle condizioni di vita conseguite, l’antisemitismo proclama la propria ostilità nei confronti della società pluralista. Insomma, mentre il razzismo è un’ideologia della soddisfazione, l’antisemitismo è da considerarsi una teoria politica rivoluzionaria, del tutto ostile alla democrazia e al pluralismo.