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Una esplicita dualità può dedursi dal poème nel cui titolo è inscritto sia il senso della concomitanza e della prossimità sia, viceversa, quello di una disputa e di un aperto conflitto. E forse non potrebbe essere altrimenti per un testo che Tommaso Di Francesco serba da alcuni decenni alla maniera di una personale genealogia poetica, o forse di una radice dissepolta, e su cui torna a cadenza, con una fedeltà che piuttosto somiglia a un’ossessiva incombenza. Dunque A contendere può essere letto come un palinsesto d’autore ma anche, e specialmente, come un esito assoluto della poesia dei nostri anni. Né deve fuorviare la grande compattezza dell’ordito, il passo equanime delle quartine di (sostanziali) endecasillabi disposti a specchio quali corrispettivi di un dentro e un fuori, fra segni tipografici in tondo e segni in corsivo. La prima evidenza che infatti proviene da una poesia così netta, austera nelle forme, corrisponde all’immagine del filo spinato che divide, crudelmente minaccia e allo stesso modo discrimina fra quartine idealmente scritte in terza persona (immagini straniate, a lungo ripensate) e corsivi stesi in persona prima dove si assommano ricezioni fisiche, riflessi emotivi, pulsioni. Non si tratta di un testo a fronte ma del corpo diviso in due da una secante tracciata all’interno di un unico testo la cui dinamica di perpetua lacerazione e ricomposizione concerne la dislocazione dell’esserci, la parte razionale e irrazionale del percepire o insomma i due versanti opposti e complementari, il che vuol dire necessari, della parola espressa… (Dalla nota di Massimo Raffaeli).