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Può essere irrazionale il sociale rispetto all’economico? Questo è, alla fin fine, il problema da affrontare per chiudere la parentesi neoliberale della storia recente del capitalismo. Ma la soluzione non c’è: solo funambolismi che denunciano la gravità della situazione senza riuscire a porvi rimedio. Si apre così lo spazio per la negazione del capitalismo, non in prospettive utopiche, ma come conclusione di ragionamenti paradigmatici coerenti, relativi alla sua evoluzione storica, e alla dinamica del capitale quando viene considerato come suo motore.
Un tempo, per molti, la classe operaia era il soggetto storico che avrebbe dovuto traghettare la società oltre il capitalismo. Il verso della lotta di classe però è cambiato; ora trova impulso dall’alto, e sposta ricchezza verso i vertici della piramide sociale. Tuttavia Marx è più vivo che mai per chi, con le sue lenti, non rinuncia alla lotta e guarda alla fine del capitalismo abbandonando la vecchia strada delle compatibilità, che ora porta a rinchiudere il lavoro entro la catena del valore, nonostante l’insopportabilità delle condizioni in cui viene erogato. Alla compressione del sociale reagisce anche chi è metodologicamente abituato ad usare le categorie di un Weber che considera l’uomo storicamente partecipe della realizzazione della ‘gabbia di acciaio’ imposta dall’economia, perchè il baratro verso cui corre il capitalismo sta ben oltre quell’orizzonte.
E’ stato Wolfgang Streeck, eminente scienziato sociale tedesco, a richiamare di recente l’attenzione sulla fine del capitalismo, ma altri autorevoli scienziati sociali nell’ultimo decennio hanno affrontato l’argomento. Giovanni Arrighi aveva annunciato la fine della storia del capitalismo già a metà degli anni ’90 del ‘900, e nel 2007, alla vigilia della morte, aveva confermato la previsione. In quello stesso anno André Gorz, prima di decidere di morire, era giunto per altra via ad una conclusione per alcuni aspetti analoga. Robert Kurz aveva sostenuto fin dal 1986 che il capitale era prossimo alla fine, ed ha continuato a sostenere questa tesi con analisi puntuali fino al 2012, anno del suo prematuro decesso. Gli altri - Immanuel Wallerstein, David Harvey, Moishe Postone, Paul Mason e Jeremy Rifkin - sono, come si usa dire, vivi e (più o meno) vegeti, e si sono espressi in tempi diversi su questo argomento senza poi modificare le loro posizioni.
Il libro individua le diverse strade che li hanno indotti a prevedere, in vario modo, la fine del capitalismo, sintetizzando i loro paradigmi. Le loro analisi sono esposte senza intromissioni, con riferimento ai loro scritti e alle loro interviste. Sono raggruppate in capitoli, che da un lato si richiamano a scuole di pensiero, come l’Economia mondo e la Critica del valore; dall’altro realizzano una progressione tematica che va dalla fine della storia del capitalismo, alla assenza/presenza di un soggetto contrapposto al capitale, all’autoliquidazione del capitale per ragioni inerenti alla sua dinamica, e, infine, all’emergenza, sulle sue ceneri, di una nuova società. Si aggiunge, nelle conclusioni, un altro punto di vista sulla fine del capitalismo, frutto di una riflessione dell’autore.