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In quanto ideologia rivoluzionaria, il fascismo ha presentato una propria visione della Storia e della rivoluzione. Questa visione costituiva una rottura profonda e radicale rispetto alla tradizione rivoluzionaria occidentale segnata dal razionalismo. Ed era una rottura provocata dalla visione mitica della politica, già teorizzata da Georges Sorel fin dal 1908: una visione mitica su cui aveva riflettuto il Carl Schmitt dei primi anni Venti.
La rivoluzione come mito politico da perseguire rimandava alla visione fascista della Storia: questa visione negava che, all’interno della Storia, agissero presunte “leggi”, come supposto dal liberalismo e dal marxismo, i quali identificavano la Storia come affermazione del Progresso. Per i fascisti, che negavano sia il razionalismo sia l’ideologia del Progresso affermatasi con l’Illuminismo e il giacobinismo prima e col marxismo dopo, era fondamentale un atteggiamento attivistico, costruito attraverso la negazione della processualità della Storia e la contrapposizione fascista-mondo. Come aveva già osservato Augusto Del Noce, per l’attivismo «Se il mondo si riduce a cose, e io solo mi riconosco come soggetto, il mondo è per me, io devo dominarlo».
Nella visione fascista risultava fondamentale il ricorso alla violenza quale strumento per “forzare” la Storia; questa, inoltre, non approdava ad alcun Regno del Bene, come nell’immaginario delle precedenti teorie rivoluzionarie. L’ideologia rivoluzionaria del fascismo, al contrario delle altre ideologie rivoluzionarie, negava decisamente che la Storia avesse approdi messianici ed escatologici.
In forza di questo attivismo lo stesso totalitarismo era visto come una soluzione in progress: se la Storia non aveva mai termine, ciò implicava che lo stesso impegno rivoluzionario del fascista si svolgeva in un attivismo continuo.