"FASCISMO ETERNO" E FASCISMO STORICO

Umberto Eco, la destra e la tradizione antifascista

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INVIO SENZA SPESE e OMAGGIO UNO DEI DIARI&QUADERNI
Formato: 120X210, 144 pagine / Luglio, 2024 / ISBN: 9788893132756

PRIMA DI ACQUISTARE, PER PIACERE, LEGGI QUESTA LUNGA CONCLUSIONE:

Conclusione

1. Sangue e democrazia

Liquidiamo subito la cronaca politica o almeno cerchiamo di leggerla sotto l’aspetto storico. A porre al centro dell’agenda delle discussioni pubbliche la questione dell’antifascismo ha contribuito la convergenza di due aspetti: intanto, la vittoria elettorale dello schieramento della destra nel settembre 2022. Com’è noto, all’interno di questa destra prevaleva un consistente settore di classe dirigente di provenienza neofascista, del tutto indisponibile a riconoscere le ragioni dell’antifascismo. Il secondo motivo è da individuare nella crisi culturale, ormai di lunga data, del paradigma della sinistra. Di quel paradigma, l’unica voce sopravvissuta è proprio il richiamo all’antifascismo. Ciò significa che l’insistenza su questo tema non dipende solo dalla difesa della Costituzione e dei valori di questa sottoposti all’assalto del sovversivismo dello schieramento politico vincitore, bensì confermano la generale crisi culturale della sinistra. Gramsci, a proposito del fascismo, aveva parlato di «sovversivismo delle classi dirigenti». Rimane da chiedersi se a destra l’attuale sovversivismo culturale non abbia ricevuto un contributo determinante dalla sinistra: come qualsiasi fenomeno politico, anche il sovversivismo non nasce e non si allarga quasi per autogenesi. Fin qui la cronaca politica; e passiamo alle questioni storiografiche.

Dunque, l’antifascismo è un atteggiamento politico-culturale storicamente superato, come si ritiene da più settori della società italiana, quasi sempre da parte di una destra più o meno estrema? Sono poche le voci che a destra sono disponibili a riconoscere il valore dell’antifascismo. Tra i pochi, Renato Brunetta il quale pur muovendo la consueta accusa alla storiografia di essere «distratt[a] e reticent[e]» nell’indagare i lati oscuri del comunismo italiano (finanziamenti dai paesi del blocco sovietico, organizzazione di un apparato militare segreto ecc.), non peraltro riconosce: «non ho alcuna difficoltà a definirmi anticomunista, così come antifascista, anzi, per essere precisi, non riesco a comprendere come si possa essere democratici senza essere anticomunisti ed antifascisti».1

Se il fascismo non è «Ur-fascismo», ma una formula politica e un universo ideologico limitati nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, allora anche l’antifascismo risulta limitato nel tempo? Può darsi un antifascismo senza il pericolo fascista oppure esso è anacronistico, ovvero, come spesso viene rimproverato a chi all’antifascismo si richiama, un cortocircuito del tutto ideologico cui si ricorre per evitare di affrontare i nodi e i problemi posti dall’attualità politica?

L’evocazione di un pericolo fascista si presenta sempre alla stregua di un rimprovero strumentale, che evita accuratamente un confronto critico col ventennio fascista? Come a dire che si critica l’antifascismo, perché è nulla più che un evocatore di un fantasma, quello del fascismo, ormai sepolto tra le macerie della storia e la cui memoria risulta coltivata da frange estremiste del tutto isolate nella dialettica politica? Insomma, volendo riassumere tutti questi interrogativi in uno solo: l’antifascismo possiede ancora un senso politico e culturale dopo che il fascismo è stato debellato quasi ottant’anni fa; oppure lo stesso antifascismo risulta un fantasma sopravvissuto a sé stesso? Nella destra più attenta alle questioni di natura culturale si è convinti che fascismo e antifascismo siano da relegare in soffitta. Anzi, se l’antifascismo è superato, a destra si propongono aggiornamenti culturali inadeguati: «Da decenni – si è osservato di recente –, assistiamo a una grottesca riproposizione della guerra civile, alla parodia delle tragedie del Novecento, con eroi antifascisti in assenza di fascismo. Anche la destra ha dato e dà il suo contributo macchiettistico in molti modi: indifferenza o aperto disprezzo per la cultura».2 Si può aggiungere che, quando anche c’è l’interesse per le questioni culturali, si manifesta la difficoltà di aggiornare il bagaglio d’idee.3

Una considerazione preliminare s’impone. Se il fascismo fosse «eterno», allora questa “eternità” dovrebbe fornire un argomento forte alle posizioni di quell’area, peraltro frammentata e molto minoritaria, dell’attuale radicalismo di destra. Sarebbe, infatti, il radicalismo di destra la nuova incarnazione di quell’“eternità”. Ma così non è, in quanto per definire quell’area politica, ci si richiama a concetti come “neofascismo”, “neonazismo” e, appunto, “radicalismo di destra”.

Del resto, emerge in primo piano una differenza: se il fascismo si era fatto imprenditore politico della piccola borghesia, il radicalismo di destra attuale cerca di intercettare il malessere delle periferie metropolitane degradate. Credo sia questo il motivo fondamentale della prevalenza dei richiami al nazismo – con tutte le sue conseguenze, dal negazionismo per quanto riguarda la Shoah all’esibizione di croci uncinate, per finire alle foto di Himmler presenti nelle sedi dei gruppi di quest’area ecc. – piuttosto che al fascismo: troppo ottimistico, quest’ultimo, nonché incline ai compromessi con gli altri poteri dello Stato, a cominciare dalla monarchia, rispetto sia al carattere disperato del nazismo che al radicalismo politico che questo dimostrò. Se, nel caso dell’area del radicalismo di destra, ci si richiama al fascismo, è soprattutto per i temi che questo condivideva col nazismo, come, ad esempio, l’antisemitismo.

La questione storiografica riguarda la democrazia italiana e, quale conseguenza, l’antifascismo. Procedo ancora una volta per comparazioni.

La democrazia americana si era affermata in seguito alla guerra delle colonie contro l’Inghilterra, trovando una conferma nel corso della sanguinosa guerra civile nel secolo successivo. Viene da chiedersi, anzi, se, piuttosto che la guerra delle colonie americane contro l’Inghilterra, non sia stata la guerra civile del secolo successivo l’effettivo atto di fondazione della democrazia americana. Quella francese, è appena il caso di notarlo, è il risultato del 1789, pur tra diversi tentativi di azzeramento dei risultati della Rivoluzione francese, culminati nel periodo drammatico del regime collaborazionista di Vichy. Infine, la democrazia tedesca, fatta salva la breve parentesi della Repubblica di Weimar – contestata, fin dai suoi inizi, da consistenti forze antisistemiche da destra e da sinistra – è sorta all’indomani della sconfitta del nazismo nel 1945, trovando la sua conferma nel 1989, con l’unificazione della Germania in seguito al crollo del muro di Berlino. La democrazia italiana è stata il risultato della sconfitta del fascismo.

Viene da osservare che spesso i regimi politici democratici sono sorti in seguito a rotture traumatiche verificatesi nel corso delle vicende delle varie nazioni; e si è trattato talvolta di rotture sfociate nella guerra civile, come appunto nel caso italiano. Spesso le democrazie nascono dal sangue.

Pongo allora il problema storiografico in questi termini: a quali cause addebitare la constatazione per cui le democrazie hanno avuto spesso origine da traumi politici interni, talvolta anche caratterizzati dal ricorso alla violenza?

Direi che la causa principale potremmo individuarla nel fatto che la democrazia domanda un impegno costante da parte dei governati, ossia un’attenzione sempre vigile e attenta sull’operato dei governanti. Le democrazie originate dalle rotture rivoluzionarie tendono ad assorbire da queste ultime la convinzione della necessità che i governati partecipino alla politica in una maniera più assidua. Le rivoluzioni risultano spesso ottime scuole preparatorie alla democrazia, perché rivelano un protagonismo politico che può riverberarsi anche nel medio-lungo periodo, cioè nella situazione post-rivoluzionaria. Mentre altri tipi di regimi, a cominciare da quelli totalitari, erano riusciti a imporsi in seguito a scelte operate da élites politiche, minoritarie nell’opinione pubblica, ma animate da un marcato decisionismo, come nel caso evidente del bolscevismo e del nazismo, le rivoluzioni che sfociano in regimi politici democratici risultano animate da domande che prevedono una maggiore partecipazione dei governati alla politica.

2. Fascismo, antifascismo e politicizzazione diffusa

Ho già sottolineato alcuni limiti teorico-politici dell’antifascismo nel ventennio fascista, così come quelli dell’«Ur-fascismo» di Eco. Credo che non ci sia bisogno di postulare l’esistenza di un «fascismo eterno» per giustificare la persistenza dell’antifascismo, in virtù della constatazione che quest’ultimo, volendo ricorrere a un’immagine paradossale, non è stato solo opposizione al fascismo – non è stato, insomma, solo “antifascismo” – essendo riuscito ad elaborare una propria visione della democrazia che teneva in considerazione quanto prodotto dal ventennio fascista. E qui emerge un rapporto dell’antifascismo con la vicenda storica fascista.

Un dato che aveva lasciato stupite tutte le voci più rappresentative dell’antifascismo, da quello cattolico a quello socialista e comunista, era stata la capacità del regime fascista di organizzare e di mobilitare le masse dei governati.4 Nella definizione togliattiana del fascismo quale regime «reazionario di massa» ciò che colpisce è il «di massa», perché, almeno nella tradizione marxista in cui si era formato Togliatti, i reazionari – e con questi si intendevano i controrivoluzionari, i tradizionalisti ecc. – erano identificati come circoli politici ristretti. Nel caso del fascismo, invece, Togliatti riconosceva che erano le masse ad essere state trascinate su posizioni reazionarie.

Almeno per questo motivo, l’antifascismo può ritenersi figlio dell’esperienza fascista, avendo compreso non solo che la forza di un sistema politico era data dalla sua capacità di stabilire un rapporto con i governati che non poteva limitarsi alle scadenze elettorali, ma che il fascismo aveva inaugurato un modo di fare politica, e soprattutto di viverla, non più ristretto alle élites. Col fascismo il percorso delle decisioni politiche prevedeva certamente un ruolo subalterno delle masse, chiamate ad appoggiare scelte decise addirittura dal solo Mussolini. E tuttavia, la loro visibilità politica definiva comunque un rapporto più stretto fra le masse e la politica.

Credo allora che si possa riconoscere un filo rosso fra il fascismo e l’antifascismo. Si tratta di un filo rosso che così si può delineare: se il fascismo aveva trascinato le masse sul terreno della politica, l’antifascismo aveva mosso da quanto vent’anni di regime fascista avevano seminato in materia di politicizzazione e di mobilitazione dall’alto delle masse, elaborando un complesso processo di educazione di quelle stesse masse alla democrazia. La cultura politica antifascista post-1945 era tenuta a registrare che, in epoca fascista, le masse avevano ormai acquisito un rapporto stretto con la politica. Si può spiegare anche in questo modo il sotterraneo filo di continuità esistente fra il fascismo e il successivo successo dei partiti di massa nell’Italia repubblicana.5 Almeno in questo senso, il post-fascismo presupponeva il lavoro di intensa politicizzazione delle masse svolto in precedenza dal regime fascista.

Si potrebbe osservare, ricorrendo ancora una volta a una comparazione, che l’antifascismo era riuscito a rielaborare una visione della democrazia in senso rousseauiano; per la precisione di quel Rousseau critico del sistema rappresentativo inglese. Il passo del filosofo ginevrino è fin troppo famoso, ma conviene richiamarlo ai fini del nostro discorso: «Il popolo inglese crede bensì di essere libero, ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l’elezione dei membri del Parlamento: appena questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita bene che la perda».6 Abbiamo osservato in precedenza che una delle caratteristiche fondamentali del pensiero della destra consiste nel timore del conflitto quale situazione che può condurre alla crisi del sistema sociale. In virtù di questo timore, la destra attuale tradisce un atteggiamento ispirato a un liberalismo autoritario e disciplinato che, riprendendo Rousseau, così si potrebbe delineare: la democrazia si esaurisce nel diritto di voto; consumato quel diritto, è necessario evitare proteste e conflitti, situazioni alle quali è lecito replicare mettendo mano al manganello. Il che significa che l’attuale liberalismo non è ispirato né a Zanardelli e Giolitti, men che meno a quello di un Nitti, bensì a un crispismo tradotto nel ventunesimo secolo.

Beninteso, la visione rousseauiana della democrazia elaborata dall’antifascismo non consisteva nella democrazia diretta, che lo stesso Rousseau, del resto, giudicava poco praticabile. Non peraltro, quella antifascista era una democrazia che procedeva oltre la stessa tradizione liberale, spostando il terreno di confronto dal principio di eguaglianza – dato per acquisito anche sotto l’aspetto sostanziale, come previsto dalla Costituzione – a quello di un rapporto più stretto fra masse e politica. Il fascismo aveva introdotto le masse nello Stato, avviando un gigantesco processo di socializzazione politica, sia pure elaborato secondo criteri autoritari. Anche se questo processo di introduzione delle masse nella Stato e di socializzazione politica era stato giudicato reazionario, come nell’analisi proposta da Togliatti, esso era in realtà un processo del tutto rivoluzionario, non foss’altro perché frantumava la precedente tradizione liberale, timorosa di un’eccessiva politicizzazione delle masse. Non a caso, in ambito fascista alcune voci parlavano del fascismo come di una «democrazia» ovvero del regime come di una «democrazia totalitaria».7 Il fascismo, insomma aveva risolto uno dei limiti fondamentali del liberalismo. Ciò significava che, dopo il 1945, una restaurazione di un rapporto fra masse e politica ispirata ai canoni del liberalismo tradizionale avrebbe costituito un arretramento alla situazione prefascista; mentre, a ben guardare, si trattava di promuovere e di rafforzare un rapporto più stretto, recuperando quella situazione di socializzazione della politica elaborata e promossa dall’esperienza fascista, naturalmente scrostandola di tutte le pulsioni autoritarie.

Ciò che intendo sostenere è che la visione della democrazia elaborata dall’antifascismo aveva stabilito un rapporto dialettico con la tradizione liberale. Per un verso, accettava quella tradizione quale prerequisito indispensabile per uscire dalle secche del totalitarismo fascista: non poteva darsi una fuoriuscita dal totalitarismo fascista senza richiamarsi alla tradizione teorico-politica liberale. Per l’altro verso, costituiva l’Aufhebung di quella tradizione, avendo recuperato, se non assorbito, dal fascismo la necessità di una partecipazione più continua delle masse alla politica. Il liberalismo classico è da intendersi quale presupposto necessario per l’affermarsi della democrazia antifascista; ma risulta una posizione teorico-politica insufficiente per definire quest’ultima.

Si può parlare di “rivoluzione antifascista” nel senso che, avendo assimilato dall’esperienza fascista la convinzione del ruolo centrale svolto dal rapporto stretto fra masse e politica, l’antifascismo aveva proiettato questo dato storico nell’Italia repubblicana. A questo punto la tradizione liberale diveniva la cornice di un quadro il cui soggetto principale era dato da un protagonismo di massa che traeva legittimazione da una situazione di democrazia avanzata e, al tempo stesso, la rafforzava e la sviluppava ulteriormente.

La questione riguarda il presente, qualora lo si volesse interpretare storicamente. L’antifascismo in Italia non gode di buona salute – e ciò da qualche decennio. Ha perso di credibilità e di udienza presso settori consistenti della società italiana. Questa situazione non è dovuta solo al linguaggio aggressivo della destra: un linguaggio che spesso tradisce una contiguità con quello dell’estrema destra. La perdita di udienza reperisce probabilmente una causa decisiva nel fatto che l’antifascismo viene percepito come una cultura iperpolitica, che riesce solo a fatica a trovare spazio in una società in cui i processi di depoliticizzazione risultano ormai avanzati. Spesso l’antifascismo è visto quale sopravvivenza di un periodo, quello avviatosi nei primi anni Venti e conclusosi nel 1945, caratterizzato da processi molecolari di politicizzazione integrale della vita di una persona: una politicizzazione che aveva prodotto prima i regimi totalitari e poi il secondo conflitto mondiale.

Ora, quella antifascista è una democrazia che presenta qualche carattere riconducibile al giacobinismo?

Già De Felice aveva accennato a una radice vagamente giacobina del fascismo, in particolare del primo fascismo: «direi che fra i miei giacobini – aveva sostenuto lo storico – […] e un certo tipo di fascismo – riferendomi in particolare al fascismo delle origini, e a certi personaggi del fascismo – c’è un quid inafferrabile in comune, falso storiograficamente, ma vero psicologicamente».8

Il “giacobinismo” fascista aveva provveduto a procedere oltre il giacobinismo storico: se in quest’ultimo il concetto di “partito”, sol che si pensi a Saint-Just9, presentava un’accezione del tutto negativa, perché la difesa della nazione e della rivoluzione non ammetteva divisioni e fazioni, il fascismo si trovava ad agire nella società di massa, dove era ormai necessario organizzare le masse in partiti, sindacati ecc. Se ben intendo il giudizio di De Felice, i “giacobini” fascisti erano quei settori del partito che più insistevano nello sviluppo del processo rivoluzionario.

Ora, è chiaro che non si possono sollevare obiezioni alla teoria di Eco sul «fascismo eterno», per poi rifugiarsi in quella di un altrettanto “eterno giacobinismo”, concetto oggetto già di analisi critiche in sede storiografica, dove è stato osservato che «il contesto rivoluzionario del XX secolo ha contribuito ad attirare l’attenzione comparativa degli studiosi di storia sulla Rivoluzione francese, eretta per questo a “modello” di ogni rivoluzione».10 La comparazione col giacobinismo diventa un passaggio obbligato (Lenin, Trockj e i bolscevichi, più che compararsi ai giacobini, si erano considerati i loro unici eredi); ma la comparazione serve a sottolineare le differenze. 

Che queste differenze siano evidenti, nel momento in cui si compara giacobinismo e fascismo, non c’è bisogno di soffermarsi. Rimane però da chiedersi se l’ipotesi di De Felice non fosse limitata, ossia se quel quid cui egli si riferiva trascendesse l’aspetto meramente psicologico, investendo in maniera più diretta la politica. Per il problema che qui discuto, mi limito a rilevare un solo aspetto del “giacobinismo” fascista: l’intuizione che la politicizzazione-mobilitazione delle masse fosse una scelta necessaria per rafforzare il regime. E questa soluzione, del resto, si presentava alla stregua di una tattica ancor di più necessaria e fondamentale se si voleva dare vita a un regime politico totalitario.

Se così non fosse, riuscirebbe difficile comprendere le ragioni dell’opposizione della tradizione liberale dell’Ottocento al giacobinismo. Era un’opposizione giustificata solo dal ricorso indiscriminato alla ghigliottina? Ma nella lettura liberale della Rivoluzione francese proposta da autori come Hippolyte Taine, per non dire dei pensatori controrivoluzionari come de Maistre, la ghigliottina funzionava alacremente perché le masse partecipavano alla politica; e vi partecipavano soprattutto quei settori di masse che, fino al 1789, erano vissuti ai margini della società e che ora rappresentavano il fanatismo rivoluzionario più estremista. Allora, per il liberalismo ottocentesco il problema era quello di chi era deputato all’azione politica, considerato che, come aveva insegnato l’esperienza giacobina, le masse politicizzate diventavano ingovernabili.

La spoliticizzazione dello Stato, quella che Schmitt aveva definito quale formazione dello «Stato neutrale»11, si era articolata anche quale processo storico-politico di spoliticizzazione dal basso, cioè delle masse dei governati. Nello «Stato neutrale» la “neutralità” delle istituzioni si associava al tentativo di spoliticizzazione della società, entrambe lame di una forbice che avrebbe dovuto tagliare sul nascere eventuali prospettive giacobine. Per la tradizione liberale dell’Ottocento, masse politicizzate avrebbero provocato prima o poi il ritorno in superficie di tendenze giacobine, predisponendo la società a rivoluzioni o quanto meno al proliferare di atteggiamenti sovversivi. Chi aveva colto come la guerra avesse dato vita a processi molecolari di organizzazione delle masse era stato Gramsci. A suo avviso, prima della guerra

il popolo italiano non esisteva come concretezza ideale, come organizzazione attiva […]. La guerra attuale […] vuole resistenza negli individui […] ma anche profondi strati di umanità organizzata modernamente […].12

Procedendo ad organizzare e a mobilitare masse fino ad allora estranee alla politica, la guerra aveva costituito una situazione di superamento della tradizione liberale di cui avrebbe approfittato il fascismo. In questo senso, si comprende come la pedagogia politica fascista avesse costituito una rottura rispetto alla tradizione liberale: tutti i cittadini erano costretti a partecipare alla politica. E siccome in epoca contemporanea la politicizzazione delle masse implicava la loro organizzazione, il fascismo aveva provveduto appunto a organizzare le masse.

3. L’antifascismo e la rivincita postuma di Sorel, Bordiga e Turati

Ai critici dell’antifascismo, almeno a coloro di questi che fondano la loro posizione sul giudizio per cui l’antifascismo è stata la cultura politica che aveva permesso a un’ideologia totalitaria, quella del comunismo, di legittimarsi nel sistema politico del dopoguerra, è da chiedere: avrebbe resistito la democrazia italiana agli urti, talvolta anche poderosi (dal terrorismo rosso al terrorismo nero, dalla strategia della tensione fino ai tentativi di colpi di Stato ecc.), qualora l’antifascismo non avesse provveduto all’integrazione delle masse nello Stato, democratizzando, a sua volta, il rapporto stretto fra masse e politica inaugurato dal fascismo?

Lo Stato repubblicano è stato spesso percepito, da ampi settori di masse, come ostile nei suoi comportamenti; ma era pur sempre ritenuto un soggetto politico da difendere. Si deve semmai proprio all’antifascismo la premura di avere annichilito quegli atteggiamenti ribellisti e sovversivi che avevano caratterizzato vasti settori di masse subalterne – atteggiamenti non sempre riconducibili alle arretratezze tipiche di una società non ancora del tutto modernizzata. E questo ci rimanda a uno degli aspetti fondamentali della critica all’antifascismo.

Un problema storiografico spesso discusso – talvolta più a livello di pubblicistica e di polemica politica che a livello storiografico – consiste nel rapporto fra comunismo e antifascismo. Almeno in riferimento al caso italiano, è recente un condivisibile giudizio storiografico: «L’antifascismo alla fine non è riuscito a rilegittimare pienamente il Pci. In compenso ha confinato la destra nel ghetto».13 Per quanto riguarda il rapporto fra comunismo e antifascismo, porrei la questione in questi termini: se, ammesso che l’antifascismo, presentato come poco più che un’invenzione diabolica di Stalin, è stato – come aveva sostenuto François Furet, con un giudizio che non confermava la sua fama di storico avvertito, quanto quella di acuto quanto agguerrito polemista politico14 – la chiave di volta che aveva permesso al comunismo di ritagliarsi uno spazio sufficiente nel terreno della dialettica politica democratica, rimane da chiedersi se l’antifascismo medesimo non avesse costituito un potente solvente che, costringendo proprio il movimento comunista, almeno quello occidentale, a confrontarsi con la democrazia, fino alla metà degli anni Trenta respinta perché “borghese”, non avesse a sua volta educato il comunismo medesimo alla democrazia. Questa metamorfosi era stata già rilevata da un marxista spagnolo critico dello stalinismo, Fernando Claudín:

la grande vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale forniva nuove giustificazioni ideologiche e politiche al monolitismo e al dogmatismo staliniani, ma la guerra e la stessa politica di Stalin avevano determinato fattori e processi di segno contrario. La guerra antifascista aveva esaltato i sentimenti nazionali dei popoli, le loro aspirazioni a una vita nazionale indipendente. I partiti comunisti, considerando il ruolo che svolgevano nella lotta contro le potenze dell’Asse, non potevano non essere “contaminati” da quella subordinazione dei sentimenti e degli obiettivi nazionali. Per di più la politica di Stalin – lavorando per salvare la “grande alleanza” – li aveva portati a relegare in secondi piano gli obiettivi sociali rivoluzionari, se non a rinunciarvi […].15

Claudín limitava la sua analisi essenzialmente alla ridefinizione dell’atteggiamento del movimento comunista nei confronti della questione nazionale. Denunciando l’instaurazione di dittature dei regimi comunisti ad Est, a Claudín sfuggiva che a Ovest partiti come il Pcf e il Pci, essendo divenuti partiti di massa, avevano proceduto a integrare quelle masse in un ambiente di pluralismo politico che non poteva non incidere sulla cultura politica comunista. Ben al di là della ridefinizione del rapporto con la questione nazionale, si era in presenza di una metamorfosi della cultura comunista originaria.

L’antifascismo aveva prodotto una sterilizzazione delle prospettive rivoluzionarie, almeno di quelle coltivate a sinistra in nome del proletariato. Lo osserva sempre Furet, quando scrive che l’antifascismo «priva il movimento comunista del particolare settarismo caratteristico della lotta di classe».16 Si potrebbe anche aggiungere che l’antifascismo non implicava necessariamente la lotta di classe medesima, non tanto perché è esistito un antifascismo borghese, quanto per il carattere eminentemente interclassista dell’antifascismo medesimo. Essendo una cultura politica in cui erano confluite diverse posizioni (socialisti, comunisti, cattolici, liberalsocialisti, liberali ecc.), poteva contemplare che alcune delle sue componenti presentassero sottolineature in senso classista, ovvero tentativi di dilatare la lotta contro il fascismo mettendo in gioco i rapporti sociali di produzione; tuttavia, anche le posizioni classiste riconoscevano che l’obiettivo politico più importante rimaneva la lotta contro il fascismo. Come procedere dalla prospettiva di lotta contro il fascismo alla rottura rivoluzionaria di classe rimaneva un problema irrisolto, perché non risultava storicamente necessario il passaggio dalla difesa della democrazia alla rottura rivoluzionaria di classe.

L’antifascismo è stato la vittoria postuma di Amadeo Bordiga su Togliatti e di Georges Sorel sull’ortodossia marxista di Kautsky e il riformismo socialista di Turati. Mi spiego. Sorel aveva intuito, già a fine Ottocento-inizio Novecento, che la tattica socialista di estendere la democrazia fino a farla sfociare nel socialismo era condannata al fallimento, perché l’ambiente politico democratico avrebbe ridotto le capacità rivoluzionarie del proletariato. Per il filosofo francese, la democrazia era stata promossa dalla borghesia proprio per spegnere le prospettive rivoluzionarie delle classi subalterne; la democrazia non poteva essere utilizzata dal movimento socialista in senso rivoluzionario. Non poteva darsi una democrazia sotto il segno del proletariato da contrapporre a quella della borghesia, perché il concetto di democrazia era del tutto borghese, considerate le sue profonde radici illuministiche ecc. Per Sorel, insomma, il proletariato doveva intendere il socialismo quale rottura rivoluzionaria della democrazia.

Quanto a Bordiga, l’antifascismo – come egli aveva intuito fin dagli anni Venti, quando la violenza fascista si era manifestata, e come avrebbe ripetutamente ribadito nel secondo dopoguerra in scritti sparsi su riviste semiclandestine – era per sua natura interclassista, e di conseguenza antiproletario. Ad avviso del comunista napoletano, l’antifascismo non avrebbe mai potuto produrre rotture rivoluzionarie, ma solo rivoluzioni democratiche; parlare di un “antifascismo proletario” era una contraddizione in termini, un’aporia fra il sostantivo e l’aggettivo. Promosse dalla piccola borghesia, ad avviso di Bordiga una classe sempre più residuale man mano che lo sviluppo capitalistico procedeva, le rivoluzioni democratiche avrebbero implicato un ruolo subalterno da parte del proletariato. Anzi, per Bordiga, la democrazia costituiva il fondamento di una classe, la piccola borghesia, che cercava disperatamente di difendersi dai processi di proletarizzazione provocati dallo sviluppo capitalistico. Fin qui, Sorel e Bordiga, entrambi critici della democrazia liberale.

Quando sostengo che l’antifascismo è stata la vittoria postuma di Bordiga su Togliatti e di Sorel sul socialismo dei vari Kautsky intendo dire che l’antifascismo, educandoLO a confrontarsi con la democrazia, aveva trasformato il comunismo in un potente soggetto politico sistemico aggiunto a quelli tradizionali, smussandone i tratti rivoluzionari, fino a farli evaporare del tutto. La necessità di difendere la fino ad allora detestata democrazia borghese dall’assalto del fascismo e del nazismo, per non richiamare i diversi movimenti di estrema destra che costellavano il panorama politico europeo, specie negli anni Trenta, relegava in soffitta le prospettive rivoluzionarie. Il comunismo occidentale, divenendo una componente culturale e ideologica fondamentale dell’antifascismo, si candidava a difendere la democrazia, trascurando i fini insurrezionali e rivoluzionari che ne avevano stimolato la formazione a muovere dalla Rivoluzione d’ottobre. Il Dimitrov del VII congresso del Komintern nell’estate del 1935, quando viene inaugurato il periodo dei fronti popolari contro l’incalzare dei movimenti fascisteggianti in Europa, non faceva altro che rinunciare, almeno sul medio periodo, all’ipotesi della rottura rivoluzionaria, dichiarando un’implicita rinuncia alle ragioni che avevano indotto i bolscevichi e Lenin a promuovere, nel marzo 1919, la formazione dello stesso Komintern.

Almeno per rimanere al caso italiano: divenendo, il comunismo, una componente fondamentale dell’antifascismo, si annullavano le ragioni della scissione di Livorno del 1921. Se Sorel, con la sua critica della democrazia, aveva prevalso sull’ortodossia di Kautsky, dimostrando che non si dava uno sbocco automatico dalla democrazia borghese al socialismo proletario; e se Bordiga aveva prevalso su Togliatti, sottolineando la caratterizzazione interclassista dell’antifascismo, in un paradossale gioco di specchi, a sua volta il Turati del congresso di Livorno prevaleva sulle ragioni scissioniste dei rivoluzionari torinesi dell’“Ordine Nuovo”. Così come, per riprendere sempre Sorel e Bordiga, non poteva darsi un passaggio dalla democrazia, sia pure quella più avanzata sul piano del riconoscimento dei diritti sociali, al socialismo, allo stesso modo la democrazia sopprimeva le possibilità storiche delle rotture rivoluzionarie, almeno di quelle promosse dalla sinistra.

Ora, cosa significava questo, se non che l’antifascismo non aveva necessità di evocare un «fascismo eterno»? Esso poteva continuare a operare anche se il fascismo era ormai tramontato dopo la sconfitta subita nella guerra mondiale, perché unica garanzia del rapporto stretto fra masse e politica che faceva di quella italiana post-1945 una democrazia capace di interpretare le sollecitazioni della società civile.

Si rende necessario “superarlo”? Questo lo dirà il futuro; e del futuro la storiografia non si occupa. Qui si può solo osservare che, storicizzato il fascismo, rimane pur sempre la democrazia antifascista.

Ho iniziato con una comparazione; è il caso di concludere con un’altra comparazione.

Storicizzare la Rivoluzione francese non ha significato certo restaurare l’Ancien régime. Allo stesso modo, storicizzare l’antifascismo non significa retrocedere al liberalismo prefascista, quello, per intenderci, che aveva promosso e gestito la «società dei proprietari»17 del XIX secolo, soprattutto perché quella antifascista è una democrazia che stimola la partecipazione dei cittadini alla politica.

 

NOTE

1 R. Brunetta, introduzione a V. Feltri e Id., a c. di, Le mani rosse sull’Italia, cit., p. 3.

2 A. Gnocchi, Il «gramscismo di destra» è un ossimoro perdente. Il Pamphlet di Alessandro Giuli apre il dibattito sui conservatori alla guida delle istituzioni culturali, in “Il Giornale”, 9, maggio 2024, p. 9.

3 Cfr., a titolo d’esempio, il compilatorio F. Giubilei, Storia del pensiero conservatore. Dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri, Giubilei Regnani editore, Roma-Cesena 2016. Di ben altro spessore analitico, M. Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, cit, il cui limite è da individuare nell’applicazione al caso italiano di un concetto, quello di Konservative Revolution, com’è noto proveniente dalla Germania di Weimar.

4 Cfr. per tutti, E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 352 sgg.

5 Cfr. per tutti, P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia 1945-1990, Il Mulino, Bologna 1990.

6 J.-J. Rousseau, Del contratto sociale (1762), in Id., Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 280-345; la citazione è a p. 322.

7 Su questo, F. Germinario, Totalitarismo in movimento. Saggio sulla visione fascista della rivoluzione e della storia, Asterios, Trieste 2024, in particolare pp. 316 sgg.

8 R. De Felice, Intervista sul fascismo, a c. di M. A. Ledeen, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 4-5.

9 Cfr. come esempio, quanto sostiene L. A. L. de Saint-Just, Sulla procedura di esecuzione del decreto contro i nemici della rivoluzione, Rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica, il 13 ventoso, anno II (3 marzo 1794), in Id., Terrore e libertà. Discorsi e rapporti, a c. di A. Soboul, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 159, 178.

10 C. Mazauric, L’Histoire de la Révolution française et la pensée marxiste, Presses universitaires de France, Paris 2009, p 138.

11 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1928), in Id., Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 167-183 (la citazione, in corsivo, è a p. 177).

12 [A. Gramsci], Il diavolo e il negromante, in “Il Grido del Popolo”, 23 febbraio 1918, n. 709, cit. da Id., Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, p. 181.

13 R. Chiarini, La vera storia dell’antifascismo. Un ricatto lungo 80 anni per manipolare la democrazia, in “Il Giornale”, 5 maggio 2024, p. 22.

14 F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo (1995), Mondadori, Milano 1995, pp. 242-302.

15 F. Claudín, La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform (1970), Feltrinelli, Milano 1974, p. 250.

16 F. Furet, Il passato di un’illusione, cit., p. 257.

17 Su questo concetto, cfr. T. Piketty, Capitale e ideologia (2020), La nave di Teseo, Milano 2021, pp. 125 sgg.

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