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La pandemia ha sconvolto il nostro modo di vivere. Ha ucciso, chiuso, isolato. Ha privato del lavoro, impoverito, accentuato disuguaglianze e allo stesso tempo ha alimentato molte proteste. Alcune apertamente manifeste, il cui obiettivo è l’apertura delle attività economiche e scolastiche, altre latenti, espressione della generalizzata richiesta di socialità ogni volta che il virus concede una tregua. Ad arrabbiarsi per le misure di contenimento del contagio sono stati davvero in tanti: dai commercianti agli artisti; dagli intellettuali alle estetiste; dagli operai agli studenti; dai parenti degli anziani decimati nelle case di riposo al personale sanitario; dai ristoratori agli operatori turistici, i proprietari di palestre, discoteche, impianti sportivi e così via. Da molti anni non si vedeva un’inquietudine sociale così diffusa. Pólemos è tornato scontrandosi con i decreti, i limiti, i controlli imposti dal Leviatano. E tuttavia, non è ancora chiaro se la rabbia sociale sia in grado di trasformarsi in conflitto e rappresentare la spinta verso un mondo migliore: più giusto, più libero e umano. Il neoliberismo cercherà di trarre vantaggio dalla pandemia e fino a oggi ha dimostrato di avere sia il potere sia le armi per non mettersi in discussione. Ma sarà ancora così?