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La politica dell’ipergesto che qui si delinea è tesa a scuotere e a produrre slanci vitali, di difesa del diritto di esserci, di esserci qui pienamente, secondo l’unica legge che è quella del proprio divenire ma anche di un divenire condiviso e negoziabile, di un divenire partecipativo e attivo, di un codice etico che impegna chi lo fa a regolare la sua azione al risveglio e alla liberazione e mai alla soppressione, alla distruzione (se non simbolica) e alla castrazione.
L’ipergesto è utopia in atto. Ciò che viene mostrato, dimostrato, creato, sono pratiche di vita utopiche poste, seppur brevemente, concretamente in essere. Frammenti di un mondo altro e possibile, seppur considerato al momento di là da venire. La creatività e l’invenzione deve figurare spezzoni di un altro mondo in cui risplenda la dimensione del piacere, della condivisione, della solidarietà, di una nuova alleanza tra uomo e natura, tra l’uomo e la donna, tra le generazioni, tra uomo e opera o lavoro.
Effettuare ipergesti significa connettersi, dilatare il più possibile la risonanza di un atto, preoccuparsi di creare tele, reticoli, flussi di movimentazione del gesto così come riflessioni, commenti, un dibattito che non deve interrompersi se non molto lentamente e possibilmente dopo aver aperto brecce nella corazza del controllo e del disciplinamento. Ma si tratta anche di un lavoro di scelte precise, di interventi sofisticati, di autentiche creazione d’arte politica.
Si tratta di una pratica che richiede che il corpo sociale tessa nuove forme di partecipazione, di condivisione e di concatenamento sovversivo.
Occorre bucare lo schermo, oggi più che mai, e permettere che accanto agli eroi di X-Factor e di Game of Thrones, altri personaggi esemplari, portatori di messaggi di rottura possibile, plausibile e comprensibile anche da un pubblico vasto, possano fare breccia.
Mostrare che un gruppo di cittadini ha creato un’oasi di godimento in mezzo al cemento di un quartiere di periferia, può fare il giro del mondo? Un giro non per gruppi segreti e piccole aggregazioni di attivisti ma a bordo dei veicoli della comunicazione di massa, non solo i video o le radio, le foto e i cartelloni ma, perché no? volantinaggi da mongolfiere, installazioni umane in movimento, menestrelli che cantano, megafonaggi in maschera, uomini e donne/sandwich che poi vengono ripresi da videocamere e cellulari, e poi ancora diffusi, moltiplicati.
Mostrare che si può mettere in atto un’istruzione libera, popolare, all’aperto, nei quartieri, nelle piazze, nei boschi o sfruttando luoghi abbandonati, rigenerandoli, non più nel chiuso di circuiti senza sbocco, ma nel grande circuito della comunicazione, può produrre degli effetti.
Mostrare figure, le infinite figure di un futuro possibile, di un presente rivisitato e ricreato attraverso la solidarietà, di resistenza alle relazioni di dominio e di sfruttamento, mostrare nuove forme di vita, di educazione, di lavoro, mostrarle in modo che non restino recluse in ghetti autoreferenziali, questo è l’unico modo che io vedo per non restare sempre al palo di una ribellione che non produce che avanzamenti minimi e presto recuperati e domati.
Solo un afflusso massiccio di informazione radicalmente altra a livello di massa può cambiare qualcosa. E su questa strada l’ipergesto è un primo strumento, non l’unico certamente ma uno di quelli cruciali, accanto al quale poi attrezzare altre vie, purché si sia consapevoli che senza un forte impatto socio-comunicativo non c’è oggi alcuno scampo.